All’Università ci insegnano ad essere sicuri di noi stessi. I pazienti hanno bisogno di potersi fidare del nostro giudizio clinico, e ciò non sarebbe possibile se ci vedessero insicuri. Come medici, si aspettano che diamo l’esempio. Ciò significa che dobbiamo sempre e comunque mostrare un atteggiamento calmo e sicuro, nonostante la paura che si può nascondere dietro tale facciata e dentro di noi. Ci insegnano a comportarci in questa maniera fin dalle prime volte che mettiamo piede in ospedale.
Pensate a quando dovete imparare, per esempio, a fare le punture lombari: qualcuno dovrà per forza essere il vostro primo paziente. Per questo motivo, cercate prima di osservare altri medici che eseguono questa procedura, studiandola nei minimi dettagli. Imparate a sentire con le vostre mani e a trovare il punto esatto in cui eseguirla. Ma ad un certo punto giunge inevitabilmente il momento di inserire l’ago. Spiegate quindi al vostro paziente come si svolgerà la procedura e cosa sentirà, lo preparate e infine chiamate il vostro tutor, così che possa supervisionare la procedura (non si sa mai, può sempre far comodo avere un altro paio di mani nelle vicinanze). A questo punto è tutto pronto per iniziare. Così mentre inserite l’ago, probabilmente faticando a trovare il punto esatto, provate a riassicurare e tranquillizzare il vostro paziente, anche se in realtà sotto sotto sapete bene che quelle parole sono rivolte prima di tutto a voi stessi. Cercate di portare a termine la procedura nascondendo il tremolio delle vostre mani e della vostra voce.
Questa abilità nel mostrarsi più bravi, più calmi e più sicuri di quanto non si sia in realtà, non si limita però all’ambiente lavorativo e ai nostri pazienti. Tende ad invadere anche la nostra vita quotidiana, sia dentro le nostre case che nelle chiese. Attraverso i social media è sempre più facile mostrare la parte “migliore” di noi stessi. Pubblichiamo bellissime foto delle nostre vacanze e condividiamo con amici e conoscenti ogni nostro traguardo ed ogni piccolo o grande successo. È raro che pubblichiamo immagini della nostra banale vita quotidiana, i nostri dubbi e le nostre incertezze. La versione online di noi stessi è sicura di sé, sempre bella e vitale, intenta a godersi la vita, non certo una versione stanca e stufa che poltrisce sul divano.
Questo è un comportamento che porta con sé sia pericoli che benefici. Se continuiamo a proiettare un’immagine distorta di noi stessi, finiamo per perdere l’onestà: onestà verso noi stessi e verso le altre persone. E senza questa qualità non siamo più in grado di capire se il peccato ci stia tentando in qualche area della nostra vita. Senza l’onestà potremmo non sentire il bisogno di chiedere perdono, o di chiedere aiuto per sconfiggere le tentazioni. Allo stesso tempo, quando ci apriamo con le altre persone, le incoraggiamo allo stesso tempo ad essere aperte ed oneste nei nostri confronti. Se noi per primi riconosciamo le nostre debolezze, diamo la possibilità anche agli altri di riconoscere le loro. E questo le vediamo anche a livello professionale: può risultare difficile chiedere aiuto o fare domande a un medico superiore a noi, apparentemente affermato e sicuro di sé, tanto che spesso studenti e specializzandi alle prime armi temono che facendo domande potrebbero portare questi medici a giudicarli e ritenerli meno preparati o meno intelligenti di quanto siano in realtà. E così nascondono i loro dubbi e le loro incertezze, tenendoli per se stessi. Questo però è un
comportamento che impedisce di imparare e acquisire sicurezza, mettendo così a rischio anche i propri pazienti. La stessa cosa può accadere anche nelle chiese, dove la presenza di leader troppo sicuri di sé può inibire la crescita delle persone intorno a loro, portandole a sentirsi inadeguate o a temere un giudizio qualora rivelassero segni di debolezza.
Questa maschera che indossiamo, fatta di apparente sicurezza, ha però anche dei benefici. Nel caso di studenti e specializzandi, la crescita avviene soprattutto quando ci viene chiesto di fare qualcosa pur non sentendoci completamente pronti. Allo stesso modo, come Cristiani siamo chiamati ad entrare nel ruolo di figli di Dio anche quando non abbiamo ancora sconfitto tutti i peccati presenti nella nostra vita. La Bibbia è piena di storie di uomini e donne ordinari che hanno compiuto opere straordinarie pur dimostrando di credere poco nelle loro abilità: Mosè, Giona, Ester e Pietro sono solo alcuni esempi.
Se decidiamo di non agire finchè non ci sentiremo pronti e sicuri al 100%, stiamo ponendo dei limiti all’opera di Dio e alla sua gloria. I troppi dubbi e le esitazioni finiscono per danneggiare non solo noi stessi ma anche chi ci circonda, in particolar modo la loro fiducia e la loro sicurezza. Dobbiamo cercare di raggiungere l’equilibrio tra integrità e sicurezza, senza cadere in comportamenti che possano erroneamente e falsamente accentuare la nostra convinzione o la mancanza di essa. Atteggiarsi per convincere gli altri ad avere fiducia in noi è tanto ingannevole e sbagliato quanto il mostrare una falsa fiducia in noi stessi.
Nel considerare queste due proiezioni di noi stessi – quella che vogliamo mostrare al mondo e quella che viviamo realmente dentro di noi – dobbiamo stare attendi a non “spaccarci” in due. All’inizio può sembrarci che la versione di noi più stanca, lenta e peccatrice sia la vera versione di noi stessi, e per tanto abbiamo paura ad esporci alle persone che ci circondano. Come Cristiani sappiamo però che questo non è vero. Noi siamo come Dio ci ha creati per essere, specialmente quando i nostri comportamenti sono volti ad onorare Dio. Siamo continuamente santificati da Dio e proprio per questo motivo gli aspetti più terreni del nostro carattere sono in conflitto con quelli che ci portano ad essere più simili a Lui. E questo conflitto non terminerà fino a quando non saremo una nuova creatura in Cristo (2 Corinzi 5:17). John Stott riassume molto bene questo concetto: “La mia vera identità è ciò che io sono per mezzo della creazione e della mia chiamata, ciò che Cristo è venuto a redimere. La mia falsa identità è invece ciò che io sono per mezzo del peccato, che Cristo è venuto a distruggere.”1 C’è una verità ancora più grande di questa, cioè che Cristo è morto per me, per ciò che io sono a causa del peccato. Dio ha mandato il suo unigenito figlio anche per la parte di me che io non apprezzo; Dio ama anche quella parte di me, perché vede oltre e vede ciò che Lui ha creato. La nostra vera sfida è riuscire a non nascondere la parte peccatrice di noi stessi nel tentativo di essere come siamo stati creati. Se riusciamo ad essere onesti con noi stessi, risulterà più facile identificare e sconfiggere i peccati nella nostra vita. Questo servirà per rafforzare la grande famiglia di Cristo e a farla crescere sapendo che siamo una chiesa fatta di persone imperfette e peccatrici che lottano ogni giorno per essere ambasciatori perfetti di Cristo.
1. Stott J. The Cross of Christ. Nottingham: IVP, 2006:329
Articolo scritto da Alice Gerth, medico specializzando in Anestesia (Christian Medical Fellowship UK) e tradotto da Giulia Dallagiacoma, medico specializzando in Igiene e Medicina Preventiva.
Link originale: http://www.cmf.org.uk/resources/publications/content/?context=article&id=26669